mercoledì 3 luglio 2013

Vorrei incontrarti

Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica,
vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India,
vorrei incontrarti ma non so cosa farei:
forse di gioia io di colpo piangerei.
Vorrei trovarti mentre tu dormi in un mare d’erba
e poi portarti nella mia casa sulla scogliera,
mostrarti i ricordi di quello che io sono stato,
mostrarti la statua di quello che io sono adesso.

Vorrei conoscerti ma non so come chiamarti,
vorrei seguirti ma la gente ti sommerge:
io ti aspettavo quando di fuori pioveva,
e la mia stanza era piena di silenzio per te.

Vorrei incontrarti proprio sul punto di cadere,
tra mille volti il tuo riconoscerei,
canta la tua canzone, cantala per me:
forse un giorno io canterò per te.

Vorrei conoscerti ma non so come chiamarti,
vorrei seguirti ma la gente ti sommerge:
io ti aspettavo quando di fuori pioveva,
e la mia stanza era piena di silenzio per te.

Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica,
vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India,
vorrei incontrarti ma non so cosa farei:
forse di gioia io di colpo piangerei.

(Alan Sorrenti, 1972)


















sabato 11 maggio 2013

Punto.

E' stato un errore. Non doveva accadere.

Sentirselo dire è sempre un pugno in faccia.

Hai un vuoto da colmare, per questo è successo.

No, tu non sei un tappabuchi.

Sono ancora innamorato della mia ragazza.

Un attacco di panico è il minimo.

Stare nel tuo stesso letto, abbracciarmi mentre butti fuori quello che hai dentro fa male.

Io ascolto. E tremo.

Io ho un vuoto da colmare, ma tu non sei abbastanza per riuscirci.
Se sto con te vuol dire che ho bisogno di te. Che voglio stare con te.
Ma a quanto pare questo non può più accadere.

Mi dispiace, non avrei mai voluto farti soffrire.

E se banalmente ti dicessi che è troppo tardi?

Ora il problema è ricominciare.

Anche Siena sento non sia più il mio posto. E' una reazione d'istinto.
Non c'è nulla che vada per il verso giusto.
Non un attimo di felicità o presunta tale.

Gli attacchi di panico e l'insonnia son tornati galoppando.

Cosa devo fare?
Non so nemmeno scrivere.



venerdì 26 aprile 2013

Imparare dal vento


Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia
a cadere, dalla corrente a portare le cose dove
non vogliono andare e avere la pazienza delle onde
di andare e venire, ricominciare a fluire.

Un aereo passa veloce e io mi fermo a pensare a
tutti quelli che partono, scappano o sono sospesi
per giorni, mesi, anni in cui ti senti come uno che si
è perso tra obbiettivi ogni volta più grandi.

Succede perché. in un instante tutto il resto diventa
invisibile, privo di senso e irraggiungibile per me,
succede perché fingo che va sempre tutto bene ma
non lo penso in fondo.

Torneremo ad avere più tempo, e a camminare per
le strade che abbiamo scelto, che a volte fanno
male, per avere la pazienza delle onde di andare e
venire, e non riesci a capire.


Succede perché, in un instante tutto il resto diventa
invisibile, privo di senso e irraggiungibile per me,
succede anche se il vento porta tutto via con se,
vivendo e ricominciare a fluire.


http://www.youtube.com/watch?v=MDnKU3bhNVs

giovedì 28 marzo 2013

Sento il freddo

Io ci provo.

Cosa fai quando qualcosa di più grande di te, di tutti, di così inspiegabile, spaventoso, pietrificante, ti piomba addosso? Cerchi di resistere.
Le cose cambiano, le priorità diventano altre, la realtà prende un'altra piega solo a causa degli eventi. Tutto è diverso, tu ti ritrovi diverso.
E questo fa paura, spaventa.
Ogni luogo, ogni odore, ogni libro, ogni canzone provoca un ricordo. Un ricordo che fa male.
Prima è una fitta allo stomaco, poi sale, verso il cuore, lo fa pulsare in modo accelerato fino ad arrivare alla gola e rimanere lì. Per un po'.
Se sei con gli altri ti costringi a far finta di nulla. Se sei da solo quel pugno, quella stretta, sale, da sola, fino al viso, provocandoti un pianto silenzioso, caldo, assente.
Il crollo può arrivare in qualsiasi momento. Non chiede il permesso, non si preoccupa che tu sia a casa, in biblioteca, fuori con gli amici, che tu stia lavorando o dormendo. E' una scossa che ti desta da qualunque cosa.
Solo una componente può aggravare il tutto. La solitudine. Ma attenzione, non la solitudine intesa più profondamente, quella che ti fa percepire il tuo io lontano dagli altri, distaccato, intangibile. E' qualcosa di più spicciolo. Solitudine fisica. Assenza di altre persone nella stessa stanza, mancanza di contatto umano.
Per questo ricerchi sempre la presenza. Va bene anche se si tratta di sola presenza. Non c'è bisogno di essere accuditi, consolati, ascoltati, accarezzati. Non c'è ne bisogno. Non c'è nulla più da dire o da fare. Basta stare con qualcuno per far sì che quello crollo ponderale possa rimanere in parte soffocato.
E' brutto, davvero brutto, egoistico usare in questo modo le persone. Credono che tu voglia la loro vicinanza perchè ti fa stare bene, perchè magari possono aiutarti. A tirare fuori qualcosa, a distrarti, a darti calore per farti dimenticare quella sensazione di freddo, di spento, di morto.
Ma non è così. E' solo una questione di egoismo, di voler per un po' salvaguardare se stessi per non crollare definitivamente, così tante volte in una sola giornata.
In un certo senso cerchi anche di aiutarti da solo. Di oggettivizzare il dolore. Di cominciare ad essere consapevole che c'è e che rimarrà. Per sempre, non andrà più via. Potrà magari cambiare forma, non lo so, ma comunque rimanere lì.
La concezione di per sempre fino ad ora non l'avevo mai presa in considerazione. Non mi è mai importato dei per sempre. Solo perchè considero tutto durevole finchè c'è e ti fa star bene.
Ma così, all'improvviso, senza salutare, senza dirsi quello che si ha dentro, no. Non l'avevo mai considerato, no.
Ed ora?
Sopravviveremo tutti a tutto.
Sopravviveremo.



N.B. Volevo specificare che questo non vale per tutti. Ci sono le persone, poche persone, che sanno farti stare bene. Sono fortunata.

domenica 3 marzo 2013

«Il titolo potrebbe essere porco dio»

Il titolo potrebbe essere porco dio, così le aveva detto.

Domenica mattina.
La domenica, a Siena, piove sempre. Sfidando le leggi della morale e della fisica, accade questo. Puntualmente.
Quella mattina si era svegliata, piuttosto presto per essere una domenica mattina. Aveva aperto gli occhi e guardato verso la finestra. Entrava luce. 
"Strano", si era detta fra se', "vedrai che se mi alzo e mi affaccio fuori per controllare, sicuramente sarà il faro di un ufo, un lampione spostato e messo davanti alla finestra da qualche studente che vagava ubriaco la scorsa notte, un pezzo di meteorite che è caduto in Russia gli scorsi giorni e ha deviato fino a finire davanti ad una finestra dall'altra parte del mondo. Ma non il sole, è impossibile. Mi rimetto a dormire".
Dopo dieci minuti riaprì gli occhi, un raggio di luce le entrava dalla fessura che stava tra lei e il lenzuolo.
"Va bene, ho capito, mi alzo".
Andò verso la finestra, socchiusa. 
Fece attenzione a non inciampare nei vestiti che si era tolta quattro ore prima, di ritorno dalla Corte.
Ancora più attenzione mise nel non spalancare troppo la finestra, troppa luce avrebbe svegliato la compagna di stanza, che invece a ballare ci era andata, sì, ma al Vanilla.
"Cazzo, c'è il sole davvero. Devo uscire". (Imperativo categorico, pensò fra se').
Rimase un po' a guardare il cielo terso e il meraviglioso panorama che quella città, baciata dal sole (cioè molto poco spesso d'inverno), sapeva offrirle. Oltre la mente, anche il corpo cominciò a risvegliarsi.
Ripensò alla serata.
Aveva bevuto, vino rosso, sì.
Poi pensieri sconnessi.
"Cazzo, non mi sono nemmeno pulita le labbra. Saranno ancora viola. Se mi becca qualcuno faccio una figura di merda".
"Cazzo, quella cogliona mi ha rovesciato addosso il vino mentre ballavo. Come mannaggia la miseria si tolgono le macchie di vino? Devo chiamare mamma.
No, forse è meglio di no".
"Mi sa che devo fare una lavatrice".
Andò davanti allo specchio. Sì guardò.
I capelli non li lavava da quattro giorni, erano stranamente puliti. O meglio, lo sembravano.
La sua attenzione, però, venne catturata dalle labbra.
"Porco dio, nemmeno le labbra mi son lavata ieri sera? Ma che schifo".
Erano viola.
Ovviamente cominciò a pensare a tutte le persone con cui aveva parlato quella sera.
Labbra viola, allegria non ordinaria, un mucchio di cazzate.
"Ah". Sospirò.
Poi si ricordò di aver parlato con la portinaia. Così conciata aveva parlato con la portinaia.
"Che cazzo le ho detto? Che figura di merda".
Tutte le sere tornava tardi. Molto tardi. Di giorno non c'era mai. Aveva sempre due belle occhiaie nere.
"Sicuro penseranno che sono una fattona. O che batto. O comunque non cose eleganti".
Bestemmiando, andò in bagno.
Fece quello che tutti i comuni mortali fanno appena svegli. La pipì. Ma si accorse che c'erano dei problemi.
Illuminazione.
"Nooo! Mannaggia la miseriaccia! Non è possibile, non ci credo. Non è vero. Sono ancora a letto che dormo e questo è solo un cazzo di incubo".
Tirò lo sciacquone, si spoglio, ammucchiò tutti i panni sporchi e si lavò.
Poi fece la lavatrice. 
Sapeva che a quell'ora, di domenica mattina, almeno una l'avrebbe trovata libera.
Fu così.
La prima cosa che andava nel verso giusto. L'unica.
Tornò sù, in camera.
Si sedette sul letto e cominciò a riflettere. Riflettere è forse una parola troppo elegante per riassumere tutte le bestemmie, che accompagnavano le frasi, che andavano a formare i pensieri, che rimbombavano nel suo cervello.
"Ma mannaggia a quella Madonna schifosa, non è possibile prendersi la candida. Non ho fatto sesso ultimamente. Averlo fatto e essermela presa, bè, almeno sarebbe stato frutto di qualcosa di bello. Però, Dio immondo, non è possibile che mi devo prendere la candida nei bagni di lettere. Ma perchè? Perchè?".
Cercò di stare calma.
Si calmò. Un po'.
Tentò di ricordarsi quanto le era costata la cura, l'ultima volta che se l'era presa.
"Allora, concentriamoci. Quanto cazzo era costata quella marea di cose che mi s'ho infilata per una settimana... No! 50euro, no...".
La settimana successiva aveva in programma di andare, con le amiche, a Bologna per un concerto.
La settimana ancora dopo doveva andare a Firenze.
La mamma, prima di partire, le aveva dato 200 euro, e con quelli ci doveva arrivare fino a fine Marzo.
Inevitabile fu un "Porcodio", detto a fior di labbra, perchè la coinquilina stava ancora dormendo.

Bè, la mattina era cominciata bene.
Il sole di domenica a Siena doveva essere per forza uno scherzo di qualche dio sadico che per contrappasso doveva sfogare la sua malvagità.
Missione compiuta, ci era riuscito perfettamente.
Allora, prese lo zaino, l'astuccio del tabacco e corse fuori.
In Piazza del Campo il sole è fantastico.

Vaffanculo.

mercoledì 13 febbraio 2013

Pudore

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.


ANTONIA POZZI, (13 febbraio 1912)

domenica 3 febbraio 2013

Quello che non ho è quello che (non) mi manca

"Fammi affogare nel tuo verde mare 
con certezze sterili".

Le certezze sterili. Illuminazione.
Non è un'illumnaizone, ho sempre saputo di aver vissuto avendo bisogno di certezze.
Ho trovato tutto tranne le certezze. 

«Stai calma, prendiamo quel che viene».
E' bello sentirselo dire. Sarebbe stato più bello se ci avessi creduto, se ci avessi provato almeno per un momento. 

E' una gran cazzata. Ma che vuol dire vivere di certezze?
E' una contraddizione in essere. Non è reale.
Possiamo considerare un passo avanti averlo capito. Ma di passi avanti non se ne fanno se continui a perorare la causa. Se davvero non riesci a vivere quello che accade, senza per forza aver bisogno di rassicurazioni costanti.

E' un circolo vizioso del quale non riesco a intravedere la fine.

Finisce così.

lunedì 28 gennaio 2013

Non voleva dormire da sola

"Questo corpo che si perde come una sigaretta accesa".

Il momento era passato. No, non è vero. Il momento doveva ancora arrivare.
E lei lo aspettava, avidamente.
Ma cosa vuol dire avidamente? Forse non è la parola giusta. Togliamo il forse.
Nelle ultime settimane le capitava così. Di pensare, sempre, che le mancasse qualcosa.
Quel qualcosa che non sapeva definire ma che forse sapeva cosa fosse.
E' strano che dopo una bella serata, molto bella: tanti amici, tanta gente, tanta musica, tanto alcol, alla fine quando la musica era finita, buio.
Il buio. Ma che cosa vuol dire buio in questo caso?
Forse nemmeno questa è la parola giusta.

(I momenti in cui vuoi scrivere, ma non ci riesci. Senti le sinapsi come bloccate. Dentro di te un flusso di parole che vorrebbe uscire, che senti stia per esplodere, da qualche parte, con qualcuno, per qualsiasi cosa ma che ancora non l'ha fatto).

Comunque, il buio.
La festa era finita e si doveva andare a casa.
A casa non c'è nessuno ad aspettarti in piedi. Magari se fosse stata a casa, con la sua famiglia, ad aspettarti vicino al camino, fumando l'ennesima sigaretta, ci sarebbe stata tua madre.
Sì, a vent'anni avere una madre che ti aspetta sveglia, non capita a tutti. Ma succedeva così.
Qui chi ti aspetta?
Il letto. I cuscini.
Così fu.

Tornata a casa s' infilò i pantaloni di una tuta, profumati di un odore che la sua amica diceva fosse troppo forte ma che "sapeva di te". Si tolse la maglia e il reggiseno, quella sera l'aveva messo, chissà perchè...
S'infilò una canotta pulita e si mise a letto.
Guardava l'armadio davanti a lei. E poi il comodino. Le boccetta di valeriana era lì, aspettava solo la sua mano che ne tirasse un bel po' fuori col contagocce.
Riflettè.
La dipendenza da valeriana l'aveva sperimentata molte volte. Troppe volte, ormai.
Pensò: "Ci risiamo".
Premette forte la parte superiore del contagocce, per far sì che si riempisse il più possibile. Versò tutto in bocca, senza prima contarle in un bicchiere, e deglutì.
Cazzo, che schifo.
La valeriana era amara. Lo zucchero era in cucina, quindi troppo lontano.
Con quel sapore che le faceva venir voglia di mettersi due dita in gola e vomitare l'impossibile, poggiò la testa sul cuscino e riprese a fissare l'armadio difronte a lei, aspettando che Morfeo venisse a prenderla.
Ci mise un po', ma alla fine arrivò.
Non Morfeo, ma tutte quelle piantine fermentate che dopo dieci minuti ti danno una botta tale per la quale ti addormenti senza nemmeno accorgertene. Senza nemmeno smettere di guardare quello che stavi guardando, pensare a quello a cui stavi pensando.

Non voleva dormire da sola.

domenica 6 gennaio 2013

SCOPerte

Quel senso di apatia, che ti repelle.
Come sei arrivata a questo punto? Forse hai risucchiato quello che non ti apparteneva, che non ti è mai appartenuto. E tu che pensavi di esserti presa solo l'orgasmo.
Cazzo, ne è passato di tempo. Eppure la notte, sì, proprio LA notte. Quella che ti fa sentire nuda, vulnerabile, ti dice quale sia la verità.
Lo senti ancora dentro, tra le gambe. Vorresti fosse ancora lì.
Non sei innamorata, non lo sei stata.
Certezza numero uno.

Hai imparato a darti. Non lo avevi mai fatto. Forse, dentro te, ti stai ancora chiedendo se sia stata la scelta giusta.
Ma questa domanda non riesci a sentirla. Da dove viene? Sembra quasi una eco sbiadita di quella che eri.
Usi verbi al passato? Cos'è, il sesso cambia così profondamente, velocemente, radicalmente?
Forse sì.
Ma infondo, cosa importa? Cosa importa della risposta? E' un passato che non ritorna.
Certezza numero due.

Allora vivi. Continui a farlo. Non come prima, però. Qualcosa è cambiato. Hai scoperto qualcosa di nuovo, che nuovo non è per la maggior parte dei ventenni. Forse per loro sarà solo qualcosa di vissuto e rivissuto. Posizione, luogo, tempo, durata. Sei indietro. Lo sei sempre stata.
Ora un po' meno.
Ti fa sentire meglio?

Una volta riempivi pagine di diario, di racconti, frignando della tua vita non vissuta. E ora? Come le riempi quelle pagine?
Non le riempi più.
Sei piena? No. Ne vuoi ancora? Tanto.
Allora: riprendersi Berlino! No, troppo complicato. E poi non voglio, non mi va.

Ad altre vie, ad altre case, ad altri letti verrò a piaggia. Non lì per rimestar.